Il titolo di questo post suona un pochino come il nome di quel movimento che organizza il suo raduno annuale a Rimini, ma vi giuro che è tutt’altro.
In questo periodo di Covid 19 ho ripensato il mio rapporto con le sale di rianimazione, un rapporto non diretto ma “mediato” dal ricordo di due persone care che ci sono passate.
La rianimazione è un po’ come la luna, non vi puoi accedere, al massimo puoi guardare da lontano ed è popolata da una quantità innumerevole di apparecchiature, tubi, fili, incomprensibili per chi non è addetto ai lavori, un posto brutto da vedere, figuriamoci starci dentro!
Eppure credo che quando tu sia “costretto” in un letto di rianimazione la cosa che più ti manchi sia la vicinanza dei tuoi affetti con i quali comunicare. Ricordo mio padre, ricoverato in rianimazione a seguito di un intervento, noi figli fuori dal vetro preoccupati: ce la farà, non ce la farà? Lui dentro, trafitto da tubi e cannule di ogni tipo, in bocca, nel naso, sulle braccia, sul ventre. Ad un certo punto si accorge di noi dietro il vetro e muove le mani, vuole dirci qualche cosa … continua a muovere le mani, le dita, prima piano, poi sempre più affannosamente, cerca di alzare le mani per mostrarci le dita che si muovano ma i tubi e i fili lo riportano attaccato al letto, allora muove la testa avanti e indietro, poi a destra e sinistra, quasi a dirci “non avete capito”. Entra l’infermiera, lo vede così agitato, interrompe la comunicazione, ci caccia! Noi “feriti” perché non avevamo fatto niente che potesse agitarlo, ma figuriamoci il suo stato d’animo.
Mio padre esce dalla rianimazione, lo ritroviamo qualche giorno, stanco, nella sua camera d’ospedale. Proviamo a chiedergli che cosa avesse voluto dire con le dita qualche giorno prima senza poter comunicare, risponde, quasi un po’ seccato, “Sette, sette, sette vite, ho sette vite come i gatti!”. Purtroppo doveva averle consumate ormai tutte perché dopo pochi giorni è entrato in coma ed è mancato. Ma ora l’immagine che di lui mi ritorna spesso alla mente è di lui trafitto come un Cristo in croce, che vuole scherzare sulle sue sette vite!
La seconda rianimazione me l’ha raccontata la mia zia Livia, bergamasca, come la gente che più soffre oggi, una donna intelligentissima, laureata in lingue che ha girato il mondo con il suo spagnolo e Inglese semplicemente perfetti. Passa da lavoro in una multinazionale a sposare per amore un contadino romagnolo, cambia completamente vita in un attimo. Con un istinto innato per il linguaggio impara il dialetto romagnolo con la stessa facilità e la stessa precisione con le quali padroneggiava le lingue apprese all’Università. Livia è sempre stata “paffuta” fin da bambina, contiene per tutta la vita il suo peso sottoponendosi a diete di ferro, ma ormai in età avanzata, mancano le motivazioni ed ingrassa sensibilmente.
Ultimamente Livia ha dei problemi di respirazione, finisce in terapia intensiva, lo scenario è sempre lo stesso macchine e tubi! Accanto a lei c’è un ragazzo, ha fatto un incidente in moto, è tutto “rotto” ma deve averla scampata, tanto chi i suoi amici vanno a trovarlo e, così per passare il tempo, deridono la “grassona” sul letto vicino. Livia è immobile e cosciente, vorrebbe riprendere i ragazzi spiegando loro che anche lei è una persona, con i suoi affetti, i suoi dolori e le sue pene, ma non può, i ragazzi continuano a deriderla, Livia è impotente, riesce solo a bagnare il cuscino con le sue lacrime …
Livia si riprenderà, uscirà dall’ospedale e andrà a casa a riabbracciare i suoi cari ancora per qualche mese, ci vedremo ancora e mi racconterà questa piccola storia triste che ritorna a galla in questi tempi di Coronavirus.
Giunto alla fine della pagina mi accorgo di non sapere perché ho voluto scrivere queste cose, o forse si, per dire a tutti che stare a casa è un sacrificio infinitamente più piccolo di quello di essere costretti in un letto di rianimazione senza poter comunicare con i propri affetti, #stateacasa!
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